Il carnevale è una festa le cui origini sono antichissime, risalgono addirittura a 4000 anni fa.
A Venezia la prima testimonianza del carnevale risale ad un documento del Doge del 1094 in cui la parola viene citata per la prima volta. Nel periodo che solitamente andava dal 26 dicembre al giorno delle Ceneri, i veneziani si riversavano a far festa per le strade indossando maschere e costumi.
Capitava però molto spesso che i festeggiamenti cominciassero già il primo ottobre.
Etimologicamente la parola carnevale deriva dal latino “carnem levare”, popolarmente tradotto “carne-vale” o “carnasciale”, perché anticamente indicava il banchetto di abolizione della carne che si teneva subito prima del periodo di astinenza e digiuno della quaresima.
Il carnevale ha termine il martedì grasso,giorno prima del mercoledì delle Ceneri, ovvero 40 giorni prima di Pasqua, quando ha inizio la Quaresima.
A quel tempo era un clima di festa diffuso in cui popolari e nobili in maschera si mescolavano per calli e campielli, un momento in cui le distinzioni di ceto e di sesso cadevano.
In questo clima la maschera rappresentava l’unica possibilità di distinguersi ancora di più o di essere considerati tutti uguali, in una società molto eterogenea e in cui esistevano forti barriere sociali.
La maschera, con le licenze di anonimato che consentiva, risultava in certi momenti storici usata anche troppo intensamente.
Tanto che mascherarsi era diventato uno status e il governo della Repubblica di Venezia fu costretto a decretare regole specifiche e divieti.
Il carnevale quindi, fenomeno culturale presente in molte società, acquistava a Venezia un significato particolare e diverso. Rappresentava qui la “scusa” per mascherarsi e poter partecipare al clima festoso e mondano della città.
Ecco perché a Venezia il carnevale è arrivato a durare anche parecchi mesi.
La vera maschera di Venezia è la Bautta che poteva aggirarsi solo in questa città mentre altrove la maschera rappresentava un personaggio o uno stato d’animo, qui serviva solo a nascondere.
Una maschera progettata per questo scopo doveva essere inespressiva, anonima, funzionale.
La “bautta” è formata da un mantello (tabarro), una cappa di merletto ed un cappuccio di seta nera (zendale), sul capo un cappello a tre punte (tricorno) e sul viso una maschera bianca (detta “larva” nome riconducibile alla lingua latina con cui venivano indicati i fantasmi e le maschere spettrali) che garantiva l’incognito.
Il Carnevale ufficiale nella città lagunare terminò nel 1797, quando col trattato di Campoformio, Venezia fu ceduta all’Austria, che bandì molte usanze per paura di ribellioni della popolazione.
Sopravvissero soltanto le magnifiche feste private dentro i palazzi fino a metà ottocento e dopo l’unione di Venezia al Regno d’Italia, non se ne hanno più tracce storiche evidenti.
A partire dal 1979 alcune associazioni cittadine hanno ridato vita ad una tradizione ormai abbandonata e per la quale Venezia era al massimo anche se decadente splendore nel Settecento.
Da allora è diventato il primo avvenimento turistico veneziano e migliaia e migliaia di persone di tutto il mondo si riversano in laguna per festeggiare in un modo unico al mondo il carnevale nei dieci giorni antecedenti il Mercoledì delle Ceneri.
Giacomo Girolamo Casanova nacque a Venezia il 2 aprile del 1725 e fu un avventuriero, scrittore, filosofo, agente segreto, persona curiosa dei più disparati aspetti della vita. Celebre resta il suo “Histoire de ma vie”, libro autobiografico, in cui vengono descritte tutte le proprie avventure e gli innumerevoli incontri cavallereschi e cerimoniosi con le donne.
Proprio per questo ultimo aspetto la sua fama ha attraversato secoli, tanto che “casanova” è diventato un sostantivo maschile della lingua italiana che indica un Uomo dedito alle avventure amorose, seduttore privo di scrupoli.
Fu, naturalmente, un grande protagonista del Carnevale settecentesco veneziano e sembra che amasse indossare la maschera della Bauta.
Quest’ultima era una delle maschere più amate dai veneziani e veniva indossata sia dagli uomini che dalle donne, in ogni periodo dell’anno in cui si voleva celare la propria identità.
Questa maschera era così gradita poiché copriva solo gli occhi e il naso, e allargandosi a livello della bocca permetteva di mangiare e bere senza doverla togliere e l’ampio tabarro permetteva agli amanti di fare l’amore in qualsiasi calle, tra le ombre dei palazzi.
La maschera del Dottore della peste non è una maschera tradizionale del Carnevale, veniva utilizzata per difendersi dalla terribile pestilenza che colpì Venezia nel 1630.
Secondo le errate credenze dell’epoca si era convinti che il contagio avvenisse tramite i cattivi odori e questa maschera avrebbe impedito ai medici di infettarsi.
La maschera aveva due aperture per gli occhi, coperte da lenti di vetro e due
buchi sul grande naso ricurvo, all’interno del quale erano contenuti cotone o stracci imbevuti di diverse sostanze profumate.
La indossavano i medici con mantello nero e guanti scarpe e cappello a tesa larga per poter essere sicuri e invincibili contro la malattia. Accessorio ugualmente importante era il bastone, utilizzato per visitare i pazienti e per spogliarli. Successivamente questa maschera acquistò nel rituale del carnevale veneziano, un significato scaramantico ed esorcistico nei confronti di malattia contagiosa.
Sembra quasi superfluo dire quanto questa epidemia abbia provato psicologicamente la popolazione decimata dal male. Così i veneziani sopravvissuti si sentirono grati verso il loro Dio per aver vegliato su di loro e sulla città in un momento di caos e disperazione. Vollero erigere allora due chiese intorno alle quali organizzarono due feste che ancora oggi sono le ricorrenze più importanti della città di Venezia.
La Chiesa del Santissimo Redentore eretta nel 1577 per onorare un voto fatto durante la terribile pestilenza iniziata nel 1575. L’opera, commissionata ad Andrea Palladio, rappresenta uno dei massimi capolavori architettonici del Rinascimento e venne terminata dopo la morte del celebre architetto (1580) da Antonio da Ponte, che rispettò fedelmente il progetto palladiano.
Essa si trova sull’isola della Giudecca e fu fatta la promessa che ogni anno, nel giorno in cui la città fosse stata dichiarata libera dal flagello, si sarebbe tenuta una processione fino alla nuova chiesa votiva. La processione avviene la terza domenica di luglio e per l’occasione viene aperto un lungo ponte votivo di barche, allestito sul Canale della Giudecca collegando l’isola con le Fondamenta delle Zattere, consentendo così il raggiungimento pedonale della chiesa del Redentore.
Durante la notte tra il sabato e la domenica viene elargito un grande spettacolo di fuochi d’artificio sul bacino di San Marco e tre regate di imbarcazioni tipiche veneziane organizzate nella giornata successiva, attraggono un vasto pubblico proveniente da tutto il mondo.
Anche la Basilica di Santa Maria della Salute fu eretta in seguito ad un ex voto alla Madonna da parte dei veneziani per la liberazione dalla peste che tra il 1630 e il 1631 decimò la popolazione, come era avvenuto in precedenza. La basilica si affaccia nell’area di Punta della Dogana e ben visibile nel panorama del Bacino di San Marco, progettata da Baldassare Longhena, è una delle rappresentazioni più riuscite dell’architettura barocca veneziana. Ogni anno, il 21 novembre, viene fatto un pellegrinaggio verso questa chiesa, che rimane aperta tutto il giorno, attraverso un ponte mobile in legno, eretto sul Canal Grande, che collega Punta della Dogana con Santa Maria del Giglio i fedeli possono accendere un cero alla Madonna e pregare in un luogo permeato di storia e di speranza.